Il conflitto israelo-palestinese è una guerra senza scrupoli. Gaza è ormai diventata scenario della perfidia dell’essere umano. Pretese territoriali, culture al confine ed ideologie contrastanti sono alla base della questione ormai secolare che giorno dopo giorno colpisce anime innocenti. Donne e bambini sono le principali vittime. Tra gli stimati oltre 58.000 palestinesi morti, secondo i dati di Hamas degli ultimi giorni; la maggior parte sono donne e bambini. Ad ogni bomba esplosa o missile atterrato, una famiglia si sgretola; più di un bambino si disperde sotto le macerie e più di una madre prega disperatamente di ritrovarlo. Lo scenario è raccapricciante tra infanzia negata, maternità violata e una vita d’inferno.
Donne a Gaza
Martiri di una cultura millenaria, le donne sono in balia della loro cultura. L’Islam oltre ad essere una religione è un modus vivendi che condiziona la vita delle palestinesi fin dalla tenera età. “Pacchi di stoffa senza volto né corpo né voce“, le definisce la nota giornalista Oriana Fallaci ne “Il sesso inutile“. Soffocate dal patriarcato della tradizione, vedono declinare il presunto rispetto femminile, in prigionia. Assumono un corpo soltanto quando si parla di famiglia; partorire è il loro unico compito ed essere madri è l’unica forma d’amore che conoscono. Sono donne sopravvissute. Da quando è scoppiata la guerra, donne incinte si auto-inducono il travaglio per non partorire in fuga. Bambine con le mestruazioni strappano la stoffa dai propri vestiti utilizzandola come assorbenti, esponendosi a pericoli salutari estremamente gravi. Madri scavano continuamente tra i resti degli edifici crollati alla ricerca dei propri figli. La guerra sta mettendo a dura prova le donne, ma non le ha mai fermate.
“A Gaza, le donne non chiedono posti nei consigli di amministrazione o missioni su Marte. Chiedono pane, acqua, sapone, un assorbente. Che i loro figli si sveglino la mattina. Se il nostro femminismo non riesce a dare spazio a questa realtà, se non si ferma ad ascoltare le voci sotto le macerie, allora cosa stiamo costruendo, e per chi è veramente?“, scrive Nadine Quomsieh, femminista e narratrice palestinese che rivolge una domanda a tutto il mondo, con risposta ancora in dubbio.
Maternità a Gaza: orfani di guerra
La maternità desiderata o forzata, è un diritto. Un diritto appartenente non solo alle madri ma anche a coloro che concepiscono. “Fin dall’inizio dell’attuale conflitto, i bambini palestinesi e israeliani hanno sofferto terribilmente. Sono stati uccisi, traumatizzati e presi in ostaggio. Bambini sono rimasti orfani e feriti.” Sono queste le parole con cui inizia il discorso di Catherine Russell, Direttrice generale dell’UNICEF al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 17 luglio, riferite a un’ infanzia catapultata in una realtà distopica.
I padri armati e consenzienti, portano avanti la guerra; sono probabilmente morti o prossimi ad esserlo. Le donne di Gaza invece, non sono armate di proiettili, ma di speranza. E i bambini? Per cosa o chi combattono? Per una vita di cui non hanno avuto nemmeno la possibilità di assaporarne il significato, l’importanza? Per un pezzo di pane o un bicchiere d’acqua? Che ne sarà di loro, dei sopravvissuti, traumatizzati fin dentro le ossa, cresciuti nell’odio e nel terrore? Domande di difficile risposta. I genocidi nella storia sono avvenuti e se ne ricordano ancora le conseguenze. A quanto pare però, la stessa storia non insegna così tanto, se si ripetono così facilmente.




Bellissimo articolo. Scrittura chiara e ben strutturata che dimostra una riflessione profonda sull’argomento. Le idee sono espresse con maturità e originalità. Complimenti!!!
Definire questo articolo ‘stupendo’ sarebbe riduttivo, ma d’altronde non ci si poteva aspettare altro dalla penna che lo ha scritto. L’argomento è profondo e induce a una riflessione sincera, toccando corde difficili da ignorare. Una lettura che cattura fino all’ultima riga. Oltre al tema trattato con grande delicatezza e lucidità, colpisce anche la scrittura: chiara, empatica, mai scontata. In un momento in cui si tende a semplificare tutto, leggere un pezzo così attento e umano è raro e prezioso. Sei riuscita a trasformare un tema doloroso in qualcosa di profondamente umano, e questo dice molto, non solo della giornalista.