“Onora la figlia” è l’ultima silloge scritta dal medico e psicoterapeuta Anna Segre, poetessa prolifica che racconta nei suoi libri emozioni e relazioni con una verità mai scandagliata prima. Il titolo della sua ultima opera è rivendicazione di un comandamento che risuona come un grido, un appello, un’invocazione. L’opera si staglia come un monolite emergente tra le parole e le emozioni in blocco ispirate dall’esperienza personale. La silloge è omaggio a un sentimento filiale finalmente compreso, che non cerca di essere consolato, ma di essere ed esistere.
Anna Segre scrive con la schiena al muro, con la morte della madre che incombendo diventa nuova consapevolezza. La raccolta di sessantotto componimenti non è un addio alla genitrice o alla figlia che lei stessa è stata, ma un grido di vita, un urlo di rabbia e di amore. La lingua della scrittrice è insieme spietata ed intima. Rivendica il potere dell’analisi che non tace l’errore, ma lo svela per farlo diventare balsamo che cura. Senza indulgenza né rivendicazione cieca, Anna Segre muove la penna in verso sciolto, nella volontà di dar voce alla figlia, alla sua eredità muta, alla sua irriducibile domanda d’amore e di giustizia. In queste pagine lutto e rabbia si intrecciano, si scontrano, si abbracciano, fino a diventare una nuova linea dell’amore desiderato e cullato. La zona d’ombra del legame materno e paterno viene svelata, senza pietà, senza paura. Non ci sono vittime da compatire, né carnefici da condannare; solo esseri umani, con le loro fragilità, le loro debolezze, le loro paure.
“Onora la figlia” è un comandamento che mancava, un gesto poetico che apre uno spazio nuovo nel discorso sul legame materno, sul femminile, sulla memoria e sul senso della genitorialità. È un’opera che ci sfida, ci scuote educativamente e ci costringe a guardare in faccia la realtà, senza schermi, senza protezioni, come figli di una madre e di un padre, prima proiezione del nostro mondo.
Anna Segre ancora una volta ci regala un libro che è un viaggio, un percorso di scoperta, di esplorazione, di conoscenza che parte dall’esperienza. “Onora la figlia” dona un volto all’inesprimibile, dà coraggio nell’aprirsi. E’ un libro che ci fa capire quanto la scrittura possa essere atto di resistenza, di ribellione, di vita. L’ultimo lavoro di scrittura firmato Segre è una raccolta che rende il dubbio e il dolore di un figlio, poesia, facendo sentire tutti i figli del mondo meno soli e più umani.

L’ INTERVISTA – IN POESIA IL COMANDAMENTO DI ANNA SEGRE: “ONORA LA FIGLIA”
– Dott.ssa Segre, come ha vissuto nel corso della sua vita il suo essere figlia?
Essere figlia è una balìa. Sono stata in balìa del giudizio dei miei genitori, del loro arbitrio e delle decisioni che venivano prese su di me. La mia sensazione di figlia è una sensazione di impotenza, di frustrazione, di impossibilità di essere vista per i miei bisogni, per le mie reali profondità. Sono stata fraintesa o comunque molto sottovalutata come figlia.
– La silloge “Onora la figlia” è bella corposa. Qual è la poesia, tra quelle che ha scritto, che rappresenta meglio la sua dimensione di figlia?
Questa silloge è un patchwork di cosa è stato essere figlia e quali sono le conseguenze di essere figlie. Forse la poesia più rappresentativa è la numero due in cui scrivo: “Era chiaro che chiamando non sareste venuti e che piangendo, peggio”. In essa c’è una foto del fraintendimento della mia sofferenza con una stigmatizzazione del pianto. Da figlia, ho imparato a portare tutto l’emotivo a cognitivo. Fin da subito ho appreso che per esprimere la sofferenza devi dirla; non devi piangere o manifestarla. Le manifestazioni sono manipolazioni, esagerazioni, tentativi di aggressione, menzogne. Un figlio deve esprimersi, non manifestare. Io ad esempio, ero abituata e sollecitata da mio padre ad esprimermi con le mani sotto le gambe, senza gesticolare.
– “Onora la figlia” è un comandamento. Parliamo della progressione e regressione dell’essere figli di oggi nella sua onorabiltà. Come potremmo definirla?
Sicuramente i figli di oggi sono figli delle persone come me. Anzi, quasi nipoti. Si avvalgono della frustrazione e difficoltà che abbiamo subìto noi. Perchè tu come figlio, quando diventi genitore, cerchi di fare il contrario di quello che hai subìto desiderando non infliggere ciò che hai provato. I figli di oggi hanno genitori che non vogliono sperimentino la balìa in cui tutti noi in un certo senso siamo stati rispetto ai presupposti comportamentali non trasgredibili per i nostri genitori. I figli di oggi hanno molto più accesso al dialogo con i genitori, alla possibilità di rivendicare. Contemporaneamente però, ci saranno tutta una serie di ricaschi negativi rispetto al non considerare più l’adulto come punto di riferimento autorevole, rispetto al sapere e alle esperienze già fatte.
-Il sentimento filiale, ad un certo punto della vita, si riconnette inevitabilmente a quello materno, perchè si sovvertono i ruoli quando i genitori diventano anziani. Allora, maternità e pietà filiale come possono conciliarsi e riconciliarsi nel tempo?
Chiaramente, quello che tu hai messo, ritrovi. Questo lo sostengo anche a livello professionale. I figli sono come le banche: quello che nostro padre e nostra madre hanno messo come impegno, come correttezza, come errore, ce lo ricordiamo tutto. Anche quello che hanno fatto di bene ricordiamo. Ricordarsi del bene che hanno fatto i genitori, è un po’ come salvare se stessi. Quel bene e quella capacità di cura, se l’hai appresa nell’infanzia, potrai restituirla nel momento in cui il genitore anziano o malato avrà bisogno. Mentre mio padre che era estremamente rigido, ha avuto sicuramente vicinanza; mia madre invece, ha avuto un grande dialogo e soccorso nella sua difficoltà finale, perchè lei era più accudente ed affettuosa di lui.
– Perdono e rimpianto esistono in questa raccolta poetica? Se si, come vengono modulati?
Questo libro è una constatazione, ed essendo tale forse il perdono deve venire, deve arrivare. Da un punto di vista metabolico deve essere processato. Questo libro è la constatazione di quello che è stato il danno, della cicatrice; di qualcosa che è stato aperto, ferito e dolente, ed adesso tende a richiudersi. Pensi che io che ho tre malattie immunitarie attive, le ho viste in remissione di intensità, a causa del fatto che secondo me il sistema immunitario è collegato alla psiche profondamente.
Ed il fatto che i miei genitori siano morti ed io mi sia messa a ragionare con la psicanalisi e con l’arte, fa sì che una parte dell’intossicazione dovuta all’impotenza, al dispiacere, al rimpianto, sia stata metabolizzata e quindi io stia meglio. Sono stata come depurata dalla constatazione; chiaramente nel libro il rimpianto c’è ed è tanto. Lo ritroviamo nella poesia che dice: “Abbiamo avuto sessant’anni ma di sessant’anni ne abbiamo avuti quattro per avere una relazione”. Perchè fino a quando mio padre era vivo, non era stato possibile avere una relazione con mia madre.
Lui ha deciso tutto: religione, linea etica, tipo di scuole ed abbigliamento, oltre che collocazione sociale che dovessimo seguire. Mia madre era residuale completamente nella genitorialità. Papà era un uomo colto, laureato in chimica e specializzato in fisica nucleare, e da un punto di vista sociale era molto rispettato. Anche da mia madre era molto rispettato e lui ha dettato la nostra educazione.

– Nell’insieme dei versi come è rimescolata la dimensione temporale?
Le poesie, esclusa la prima scritta nel 2004, sono state scritte in un breve periodo. La dimensione temporale è stata riordinata e suddivisa in nascita, infanzia, adolescenza, constatazione dei danni, vecchiaia e morte della madre. Leggendo di seguito ogni poesia, si ha una sensazione di time line concreta, colta anche nella trasposizione teatrale del libro che ci sarà il 12-13 e 14 dicembre, restituita da Giuditta Cambieri. L’opera teatrale si intitola “Su tutte le furie” e narra una storia che ha un suo arco temporale e che tratta della violenza psicologica di famiglie normalissime degli anni Sessanta e Settanta.
– Dottoressa, a suo avviso, si può educare un genitore al rispetto della filialità?
Assolutamente sì. I figli educano i genitori. Ho proposto nel 2004, quando ho scritto la prima poesia di Onora la figlia, l’aggiunta di un comandamento. Questo consentirebbe al sistema sociale-antropologico di avere un undicesimo punto di riferimento – perchè tali sono i comandamenti nei monoteismi – per guardare davvero molto male chi compie abusi sui figli.
– Per quale motivo ha scelto il verso libero per i suoi componimenti?
Mi viene spontaneo. La poesia nasce da un impeto interno e passa attraverso un filtro importante di letture, espressioni, cultura, libri che mi son piaciuti e che in qualche modo riecheggiano in me. Il verso libero deriva dalla presenza in me di tutto quello che ho letto. Diciamo che sono molto più prosa che poesia!
– Per la sua vita la poesia è stata più aurora o più profeta?
E’ stata più profeta. La poesia non mi è mai servita per rilanciare un nuovo ottimismo, ma per definire una situazione volendo stigmatizzarla nella denuncia. Le mie poesie sono graffi sulle pareti della cella; sono il mio non verbale; le mie urla disarticolate. Quando uno scrive in prosa spiega tutto, mentre la poesia è equivalente agli schizzi su una tela; è un lancio che passa attraverso la mia ricerca di alterità.
– Se questa silloge potesse diventare un’unica preghiera, quale formularità avrebbe?
In “Onora la figlia” ci sono parecchie poesie concepite come preghiera. Se dovessi scegliere una formularità che le accomuna tutte, mi ispirerei ad una delle preghiere ebraiche più ripetute che recita “Ascolta Israele”. Io invece direi “Ascolta mamma. Ascoltate mamma e papà”.
– Il suo racconto di poetessa quali margini di apertura ha per il futuro?
E’ già pronta una nuova raccolta che uscirà nel 2026 e sto scrivendo già un altra cosa. La poesia è una parte integrante del mio essere sana, del mio essere viva. Questa dimensione poetica che adesso ha trovato una sua fluidità e un suo dare ed avere nello scrivere e nell’essere recepito, è naturale e quotidiana.
– Dottoressa, come si può costruire oggi la sapienzialità della poesia e come la si può insegnare ai ragazzi sui banchi di scuola?
Sicuramente si può evolvere il programma rispetto alla poesia. La poesia è di tutti. E’ il canto dell’essere umano. Chiunque in vita sua, anche il più analfabeta, ha scritto o scriverà una poesia. L’uccello cinguetta e noi cantiamo tramite la poesia. Poi sicuramente c’è chi canta meglio e chi lo fa una tantum. Però, siccome la poesia è il canale di espressione primario (prima c’era la poesia e poi è venuta la prosa), per sistematizzare la poesia nella mente di chi sta apprendendo, devi fargli leggere qualsiasi poesia, aumentando i poeti significativi a cui approcciarsi. I pindardici ad esempio, sono strettamente collegati agli ermetici del Novecento.
Sui banchi di scuola si possono fare molto giochi di collegamento sulla storia della poesia, dando ad essa l’importanza che un adolescente è giusto le dia. Sarebbe da preferire alla canonica decodificazione delle poesie fatte imparare, che rischiano essere sempre le stesse di pochi autori. La scuola dovrebbe approfittare della ipersensibilità che gli adolescenti possono avere alla poesia. L’ormone del menarca, dello sviluppo, cavalca più l’espressione poetica che quella della prosa.
– Esiste una poesia nella sua silloge che è vera iniziazione al linguaggio della filialità?
“A cosa è valso essere brava, ubbidiente, ordinata. Perchè quelle cornicette erano così importanti per voi. Perchè i fiocchi, gli astucci, il grembiule, la pagella. Ora che sono riuscita a stare nei margini, a farvi contenti, sento soltanto la doppia mandata del sistema che io stessa rendo più forte e inespugnabile col mio servizio”. E’ una poesia di protesta inserita in “Onora la figlia”.
– Per quale motivo da figli siamo caricati del desiderio di approvazione continuo da cui non riusciamo a liberarci?
Ho una teoria antropologica. Essendo noi mammiferi, l’approvazione dei genitori consiste nell’essere adatti alla giungla. Avviene anche tra i predatori. Pensiamo ad una leonessa che educa il suo piccolo al confronto con la giungla, dandogli l’ok per camminare in essa e difendersi. E’ un qualcosa di profondamente naturale e ferino il fatto di aver bisogno dell’approvazione dei genitori, che noi abbiamo reso infinito perchè siamo una prole inetta che resta sotto l’egida parentale per troppi anni. Si tratta di una necessità viscerale legata alla paura ancestrale dei predatori, perchè solo un genitore ti protegge con il suo “ok, lo sai fare”.
– Nella relazione genitori-figli esiste un senso di ingiustizia?
La mia esperienza personale mi fa dire di sì. Ho subito una sorta di bullismo paterno che ha condizionato la mia vita in maniera statale. Il fatto che io abbia avuto molti dictat educativi, ha fatto in modo che mi guardassi bene dal fondare un meccanismo analogo. Nella mia vita ad esempio, ho fatto la psicoterapeuta perchè la psicoterapia aveva funzionato nella mia esperienza, mentre mi sono ben guardata dall’avere figli in quanto ho temuto di non essere in grado di essere un buon genitore e di riprodurre i meccanismi appresi.
– Nel racconto dinamico – poetico della relazione con i suoi genitori, qual è stato il momento di leggerezza che la fa sorridere?
Momenti con mia madre tanti; con mio padre quasi nessuno. Con mia madre era stupendo lavare i piatti, cantare, fare la settimana enigmistica insieme, giocare a scala quaranta, giocare a Machiavelli, fare le torte insieme o lucidare l’argenteria. Con lei era bello fare tutto perchè rendeva ogni cosa desiderabile. Fare le cose con lei, stare vicino a lei era stupendo. Infatti mi manca molto questa possibilità di avere una visione positiva di tutto quello che accade. E’ morta la presunzione di innocenza mia con mia madre Lei mi presumeva sempre innocente. Dopo la sua morte ho imparato a fare in maniera compulsiva i cruciverba con le concentriche e senza schema, che non avevo mai appreso mentre lei era in vita.
– Se un unico verso di questa silloge potesse cadenzare il canto del cuore, quale sarebbe?
Attorno al buco il rampicante dell’anima si adatta.
– Quale monito vorrebbe lasciare ai nostri lettori per educarli a sentire da figli?
Potreste uscirne vivi. So che la cosa per molti di voi non è ovvia, ma pensate questo: voi potreste uscire vivi dal rapporto con i vostri genitori e allora la storia sarebbe nelle vostre mani e voi potreste raccontare la storia.



