Il teatro come consapevolezza di una umanità piena da vivere e insegnare attraverso laboratori, tavole da palcoscenico, scuola e spettacolo. Questa l’intima esperienza dell’attore e regista Gennaro Maresca, fondatore e direttore artistico dell’Associazione B.E.A.T. Teatro dal 2015, divenuta compagnia teatrale che si ingegna, scrive e racconta le stagioni del sentire umano.
Classe 1983, l’artista nato a Castellammare di Stabia (NA), scandaglia la parola attraverso scena ed insegnamento. Laureato in Filologia moderna, è attivamente impegnato nel dialogo con i giovani non solo nei laboratori teatrali, ma soprattutto tra i banchi di scuola. Il Master conseguito in “Recitazione da fermo e doppiaggio cine-audiovisivo” presso l’Accademia Silvio D’Amico di Roma, lo vede nel tempo docente ed attore attivo in realtà come il Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo e il Nuovo Teatro Sanità. Le esperienze nel mondo della fiction in cui ricopre il ruolo del magistrato Walter Ruggieri nella quarta stagione della Serie TV Sky “Gomorra – La serie” e del baritono Michele Nespoli nella Fiction RAI “Il Commissario Ricciardi”, non ne cambiano l’istinto puramente teatrale che lo identifica vero attore nella percezione delle cose, anche quando contempla il ruolo di regista. Educatore teatrale in alcuni S.E.R.T. della provincia di Napoli, Gennaro Maresca ha infatti diretto spettacoli quali “Youth/Giovani”, “Peter e Alice attraverso lo specchio”, “Dramma nell’aria da Jules Verne”, selezionato al Festival Avignon Le OFF 2018, “Patroclo e Achille” e “La Vacca”, che sarà riproposto nella stagione teatrale 2025-26. L’ultimo lavoro, che è anche fiore all’occhiello della sua attività, è il percorso dedicato alla Terza Età, in particolar modo all’Alzheimer. Si chiama “Pane, Casa, Gatto”, e si concretizzerà con la messa in scena di uno spettacolo teatrale il 21 settembre 2026, nella giornata mondiale dell’Alzheimer, con lo scopo di ridurre gli stereotipi negativi associati alla anzianità. Mosso da uno spirito comunicativo sensibile, profondo e ricercato, Gennaro Maresca vive l’esperienza teatrale come continuo dialogo tra l’io e il mondo; luogo di trasformazione ed evoluzione dell’anima che si fa pensiero ed evolve nella costruzione di una umanità sensibilmente attiva, come ci racconta in questa intervista.

L’ INTERVISTA
-Gennaro Maresca, cosa rappresenta il teatro per la tua persona?
Il teatro rappresenta un motivo di evasione dalle tante vicissitudini della vita; un modo per raccontare l’essere umano con poetica. E’ l’esigenza di stare con le persone, di condividere un momento tutto umano di vicinanza fisica e di emozioni attraverso un racconto, una scena o addirittura un’intonazione, e perchè no, anche mediante la scelta di una canzone (considerando che il mio percorso attoriale da un po’ di tempo si divide anche con quello registico). E’ il modo che trovo per parlare con le persone.
– La prima cosa che hai visto a teatro da bambino e che ti ha rapito letteralmente, qual è stata?
Era metà anni ’90…esattamente 1997-98 e a Castellamare Di Stabia, la mia città, Italo Celoro – che è stato un grande maestro e un grande attore mio conterraneo – rappresentava nel teatro della città ‘Via Toledo di notte’ di Viviani. L’aneddoto è assolutamente così personale ed intimo perchè mio padre che era un panettiere ed adesso è in cielo, raramente si concedeva uscite. Invece quella sera lì, tornato dal lavoro, con mia madre ci fece preparare tutti per andare a teatro. Fu un motivo di festa. Mi portò a teatro. Questo per me è assolutamente un grande ricordo personale e professionale in quanto fui talmente rapito da ciò che vidi, che scelsi già allora di voler recitare da grande.

– Se potessi essere un luogo fisico o un elemento del teatro, quale saresti?
Mi piacerebbe essere sicuramente il proscenio; quella linea di confine che ti dà la massima vicinanza al pubblico. In qualche modo è una scelta che richiamo al mio lavoro perchè, se nella vita prevale la timidezza, la riservatezza, a teatro si anima questo coraggio, questa magia interiore che mi spinge ad essere proscenio; a stare su quel limite quasi per abbracciare il pubblico.
– Se invece fossi una battuta teatrale da ripetere a te stesso come mantra, fuori dal palcoscenico e su di esso, quale saresti?
Tra i tanti personaggi che ho avuto la fortuna di raccontare per mia iniziativa o per volontà di un regista, c’è una battuta dello spettacolo ‘La Vacca’ che stiamo portando in giro con B.E.A.T. Teatro da un po’ di tempo, in cui Mimmo, uno dei tre personaggi, dice: “Si sono dimenticati di farci succedere qualcosa”. Su un doppio piano questa battuta racconta molto l’era contemporanea, soprattutto nella compagine giovanile; personalmente invece, è il mio mantra nel ripetermi: “Io devo far succedere qualcosa” con avvenimenti che stimolino a sentirci più umani, a fare qualcosa di concreto per la società. Dal lavoro, fino al prendersi cura di se stessi, bisogna che ci succeda qualcosa!
– A tuo avviso, chi è l’istrione oggi?
L’istrione oggi si arricchisce del senso più poetico della figura iconica che rappresenta. E’ colui che è capace di farci stare insieme condividendo un pensiero leggero, profondo, grottesco. E’ colui che attira la massa. Se ciò avviene in teatro, è ancora meglio.

– Quando e perchè hai scelto di fondare la compagnia B.E.A.T. Teatro? C’è un aneddoto carino legato all’atto della creazione?
Era il 2014 e facevo già parte del Collettivo Nuovo Teatro Sanità che considero la mia famiglia. Avevo la necessità di raccontare questa esperienza anche nella provincia. Uno dei miei allievi di laboratorio, Fabio Casano, mi chiese di iniziare un discorso teatrale con la mia guida professionale. Scegliemmo di creare un’associazione. All’epoca, nel laboratorio che stavo curando, attraversai la poetica della Beat Generation e scelsi di ispirarmi a quel mondo. Convocai un gruppo di giovani allievi, li avvicinai alla poetica di Wittman, Ginsberg, e così nacque B.E.A.T. teatro, da una forma di espressione di laboratorio. Eravamo in un piccolo bar a Gragnano, città natale di Fabio, e si immaginava già la scenografia del primo spettacolo che poi abbiamo fatto ed era Youth Giovani. Andammo da tutti i rigattieri di Napoli e della provincia per cercare quegli elementi che potevano sembrarci anni ’40, dando sapore beat. Eravamo in cinque, sei. Poi si è aggiunta la mia attuale compagna Roberta De Pasquale, che oggi è l’amministratrice e organizzatrice di compagnia. A lei dobbiamo il fatto che redarguisse un nutrito gruppo di uomini, riportandoci all’ordine, come sempre le donne fanno piacevolmente.

– Il progetto “Pane, Casa, Gatto” si dedica alla terza età, la parte più bella che è somma della nostra vita. Perchè hai scelto di raccontarla anche nella fragilità? C’è un legame con un evento reale della tua vita?
Il progetto nasce da uno sfogo, perchè “Pane, Casa, Gatto” la consideriamo un’opera della nostra maturità. Abbiamo scelto di proporre lo spettacolo anche al Ministero per avere un loro riconoscimento che poi abbiamo ottenuto. Era l’estate 2023-2024 e con Fabio Casano ci chiedevamo quali fossero le nostre reali necessità. Entrambi convenimmo che vivere il ricordo della propria infanzia, della propria gioventù, della propria vita in generale, significasse spesso condividere un’esperienza legata alle figure anziane della famiglia. Ricordammo allora i nostri nonni.
Lui ha avuto la fortuna di conoscerli tutti e quattro; io ho avuto solo la nonna materna, ma la spontaneità e la delicatezza che usciva dai nostri racconti ci ha fatto capire che quella della memoria, può e deve essere la spontaneità e la delicatezza di un racconto di tutti. Volevamo raccontare la terza età perchè significava narrare anche di giovani, di uomini e donne mature ad essi legati. Chiunque ha un ricordo legato ad una figura anziana. Quindi lo percepimmo come un tema universale, oltre che la necessità di sposare la scelta politica di raccontare un’età che nel nostro Paese sta prendendo piede. Si dice sempre che l’Italia sia un Paese di vecchi.
Noi, in quanto cittadini attivi, come dobbiamo affrontarla e considerarli? Da qui escono gli elementi strutturali di una società civile. Se il popolo diventa anziano, allora l’anziano deve essere valorizzato e riscoperto, comprendendo le storie che segnano la nostra storia. Sono anche un insegnante di Lettere e quando ai miei alunni ho parlato della terza età, in ognuno di loro si è accesa una luce negli occhi legata ad un ricordo con i nonni, che ha dimostrato la ricchezza di un giovane.
Abbiamo dato la sfumatura anche della cruda realtà neurodegenerativa della terza età, condizione che coinvolge molti caregivers. Ci siamo dedicati al malato di Alzheimer che ha una sua dignità; ha una storia che abbiamo voluto raccontare facendo da ponte tra le nuove generazioni e la terza età.
– In un altro tuo fortunato spettacolo “La Vacca”, parli invece di periferia e di due giovani fratelli, toccando un’altra fascia di età. Qual è la forza emotiva di questa scrittura?
Lo spettacolo nasce nel 2019 dal mio incontro con Elvira Buonocore, autrice profondissima e grande donna di Pagani. Quando ci incontravamo a Napoli, in Piazza Bellini, dopo i nostri studi a teatro, si parlava di fare un lavoro insieme. Dalle sue suggestioni è nato questo lavoro ed il desiderio di raccontare l’adolescenza femminile, la trasformazione del corpo. Ho approvato il soggetto che poi fu il primo inviatomi e che mi risultò di grande impatto.
Da lì è nato un racconto teatrale variegato che ha come sostrato il desiderio letto in tre personaggi dello spettacolo: nella vita di una giovane che auspica la trasformazione del corpo con un seno procace, per sentirsi vista; nel racconto di Elia che anela riappropriarsi delle proprie cose, dopo essere stato derubato delle sue vacche dalla forza industriale e va cercandole simbolicamente per il mondo; nel desiderio di fare qualcosa di avvincente che appartiene a Mimmo, fratello di Donato.

– Da protagonista attivo del mondo teatrale, qual è la fragilità e il desiderio del teatro attuale?
La fragilità è la sensibilità di leggere cose non comuni a tutti e si trasforma in capacità di leggere oltre. La ritrovo comunemente nei giovani e negli adulti che partecipano ai miei laboratori. Il teatro è una forma artistica fatta dai fragili. Dico sempre che la timidezza, che è letta come un segno di fragilità, è una grande ricchezza. Se nel sentire comune la fragilità ha un qualcosa di negativo, questo deve essere combattuto. Il desiderio invece, è la dissoluzione dei tabù. E’ qualcosa che diventa mezzo per raggiungere la bellezza. Desiderare è la medicina dei nostri giorni!
– Se potessi raccontare la tua esperienza da regista oggi, come la definiresti?
La definirei come continuazione del mio percorso attoriale. Mi dico continuamente, mentre faccio regia, che sono un attore. Pertanto ritengo impossibile nella mia esperienza, scindere i due aspetti. Quello che applico quando sono attore, cerco di tradurlo mentre faccio regia.
– Lavori tantissimo con i giovani. Lasciamo loro un monito da uomo, professionista ed insegnante.
Resterei sicuramente sul desiderio e direi: “Abbiate sempre qualcosa da dire e ditelo a voce alta, guardando dritto di fronte a voi, ma con grande consapevolezza”. “Di conseguenza, lavoriamo sulla consapevolezza”.

– Prossimi impegni teatrali?
Abbiamo da poco chiuso un’ospitata nel cartellone Theatron di Portici e siamo onorati e felici di questo incontro. Prossimamente si attiveranno i laboratori teatrali che serviranno a mettere in scena “Pane, Casa, Gatto”. Laboratori teatrali che si svolgeranno una volta a settimana per tre ore. Si attiveranno presto negli spazi di Aima, Associazione Italiana Malati di Alzheimer, che è una realtà di Pozzuoli che opera su Bacoli. Si aprono margini per attivarli anche a Napoli. Stiamo per proporre anche un laboratorio teatrale per over 60. In prospettiva, verso dicembre, abbiamo il debutto di “Pane, Casa, Gatto”. A metà novembre invece debutterà un testo della nostra compagnia scritto da Fabio Casano che è “Uccelli” e si occupa di raccontare attraverso la figura di un 35enne, la svalutazione del maschio in questa società. E’ una contro risposta a Barbie, fatta con intelligenza e tanta ironia.
– Il tuo più grande sogno di attore quale sarebbe?
Il mio più grande sogno di attore sarebbe quello di sentire mio figlio dire da grande “Mio padre è un grandissimo attore”. Considero la mia vita di attore un tutt’uno con la quotidianità. Senza l’amore, la passione e la pazienza di Roberta De Pasquale che è mia compagna di vita e pietra miliare di B.E.A.T. Teatro, non riuscirei in questo mestiere che è fatto di tante cadute e risalite. Sentire l’amore dei familiari che credono in te è importante. Infatti ho portato mio figlio di due anni e mezzo già sulle tavole di un palco: vede le prove, assiste al montaggio delle luci. Ho voluto fortemente che venisse con me a teatro ed ogni tanto, a tre anni quasi, mi dice: “Papà esci, vai a fare lo spettacolo?”. Leggere questa consapevolezza in un piccino è qualcosa di unico! Il teatro è educativo e mi piace che lui lo viva e percepisca.